sala da concerto
Giuseppe Silvi
di Giuseppe Silvi
Maestro di difesa contro le arti oscure. Inizia ad udire in età prenatale. Ascolta dall'età di 27 anni ma punta con rispetto a sentire.

Ad un certo punto ho iniziato ad osservare quello che avevo fatto nel contesto in cui tutto è nato, la sala da concerto. Il contesto, la circostanza, alla luce di questo nuovo sguardo, è passato da essere sfondo, distante e sbiadito, a superficie, piano complesso su cui ho disegnato i miei poli e i miei zeri. Mi sono visto filtro di una struttura sonora che si staglia lungo la storia della scuola elettroacustica romana, mi sono reso conto che il luogo non poteva che essere quello, una sala da concerto e non un’istituzione in grado di dialogare, e quindi comprendere e parlare, la mia stessa lingua. E non perché non lo volessi, ma perché ho riconosciuto che, nella storia di cui mi sono visto parte, questo non è mai accaduto, questo luogo non c’è mai stato. Un luogo dove tutto è cresciuto senza alcun tipo di supporto, fatta esclusione del sostegno diretto di qualche caro amico che finirà, in un modo o nell’altro, tra queste pagine.

Tra le mura del Conservatorio S. Cecilia, dove non potrà mai esserci una sala anecoica, c’è una delle sale da concerto più belle d’Italia (non è oggettivamente vero, ma poco importa, come spesso accade per la bellezza). In quei luoghi sono cresciuti i miei orecchi e la mia percezione ha catturato particolari affinché fossi in grado di comporre, nel tempo, un pensiero generale. In quel pensiero c’è stato spazio per la creazione musicale, quella tipica della scuola in cui sono nato, direttamente con le parole dei miei maestri: una scuola del fare (Giorgio Nottoli), nel suo rapporto complesso tra progetto-strumento-opera (Michelangelo Lupone).

Lo studio delle relazioni tra spazio acustico, rito del concerto, strumento, interprete, pubblico e compositore hanno permesso lo sviluppo di una ricerca musicale articolata e complessa, domestica ma non per questo meno rigorosa di una ricerca scientifica istituzionalizzata, non per questo inutile.

Pensare tetraedrico oggi significa guardare al pensiero di Alan Blumlein e Michael Gerzon e cercare di capire cosa ne è rimasto nel pensiero altrui. Non scoraggiarsi davanti all’abuso di superficialità a cui sono sottoposte parole come ascolto, suono, stereofonia. Non limitarsi al collegamento Gerzon-Ambisonic, o agli epiloghi solipsistici proposti nelle realtà virtuali, che non rivendicano senso di appartenenza a quell’elegante modo di descrivere gli spazi sonori delle infinite realtà acustiche attraverso il concetto delle armoniche sferiche. Non limitarsi all’idea di una tecnologia che si pone solo al servizio di un fine, ormai esclusivamente ludico e di intrattenimento, ma che possa essere il mezzo stesso di speculazione sulle potenzialità tecniche reali del produrre e riprodurre suoni. Si tratta, in fondo, e fin dal principio, di un pensiero estremamente musicale.

A questo e di questo scrivo, alla possibilità reale di portare avanti una ricerca, destinarla ad un pubblico, divulgando il pensiero musicale che l’ha permessa e che la sostiene. Ho visto crescere la ricerca e l’interesse attorno ad essa, e seppur non avesse tutti i requisiti per stabilire una validità scientifica aveva la dignità di fatto, di aver fatto i conti con la musica (nella sua polimorfa struttura di tempo, spazio, memoria). Non una situazione anecoica, che non dà luogo a fenomeni di eco, ma la realtà acustica del vivo musicale è stato il banco di prova e l’ambiente di ricerca del mio pensiero e su questa mi auguro di avere confronto.

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